lunedì 24 marzo 2014

effetti bariccanti

[...] Quella tradizione fra l’aristocratico e il notabilare, o semplicemente lo spocchioso, che comporta il disprezzo verso tutto ciò che è popolare, in Italia si è sempre nutrita di un fraintendimento grossolano, vale a dire dell’incapacità di giudicare il delinearsi degli stili, e, di converso, la formazione dei gusti secondo canoni di valutazione appropriati. Il che significa che va benissimo stroncare Alessandro Baricco e Susanna Tamaro e stupirsi nel contempo che l’affabulatore newage Paulo Coelho venga considerato uno scrittore, o addirittura un grande scrittore, ma bisogna stare attenti a non farlo per le ragioni sbagliate. Soprattutto Baricco andrebbe smontato con scrupolo, esaminando con attenzione i suoi meccanismi, per poter individuare esattamente il trucco. Altrimenti si cade nella sua trappoletta, quella cioè di farsi giudicare uno scrittore alto, per il quale anche un verdetto critico negativo è un implicito riconoscimento di status.
Invece il problema di Baricco, ridotto ai minimi termini, è che lui, l’autore di Castelli di rabbia, si rivolge a un pubblico popolare, a lettori medio-bassi, offrendo una tonalità esteticamente sublime, o presunta tale, in pratica adelphiana, in modo da sollecitare il loro complesso d’inferiorità intellettuale. Il suo ultimo romanzo, Senza sangue, è per molti aspetti stupendamente esemplare. C’è un incipit senza tempo accertato e senza luogo riconoscibile, che deve esprimere d’emblèe l’assoluta forza metafisica o post-storica del racconto: “Nella campagna, la vecchia fattoria di Mato Rujo dimorava cieca, scolpita in nero contro la luce della sera. L’unica macchia nel profilo svuotato della pianura”.
Ci sarà un motivo se questa frase è stata utilizzata dall’editore Rizzoli come strillo pubblicitario del libro; e il motivo è che in essa, nel suo stile senza scampo, è incluso tutto il romanzo. È l’assaggio di un menù striminzito eppure contemplato sub specie aeternitatis, in cui la parola si incide sul bianco del cartoncino prezioso e muto, e resta lì a indicare che oltre il testo si intende il silenzio, l’immortalità o la morte, oppure l’Altrove, e in ogni caso a segnare il confine precario ma probabilmente irrevocabile dell’indicibile. E… ho detto tutto, confermerebbe Peppino de Filippo.
Stesso procedimento per cui il ristoratore parvenu scrive “le orecchiette con le cime di rapa” o “i fusilli con pomodoro fresco e basilico”, con quella canaglia di articolo determinativo che isola l’elencazione dei piatti dal confuso fluire delle proposte gastronomiche possibili e li conferma come scelte definitive, stabilite da un’entità aliena superiore e indiscutibile, un Artusi, un Bocuse, un Vissani, un Andrià.
Al che, un critico attirato insidiosamente verso il tranello si inferocirebbe e andrebbe a caccia delle pugnettine stilistiche di cui è disseminato il romanzo, dei maiuscoletti che gridano, dei corsivi che sottolineano, dei puntini di sospensione che sospendono, dei “da capo” malandrini che alludono, di tutti gli altri effetti bariccanti, e ci cascherebbe dentro come una povera vittima, per concludere con il sopracciglio alzato che trattasi di letteratura di serie B. Mentre non è affatto letteratura, ma un prodotto, un oggetto di fiction, e di serie A, per giunta, che non appena stampato balza in vetta alle classifiche. Perchè ci sono masse di adoratori, e soprattutto di adoratrici, prontissime a confondere il midcult con il sublime, che quindi leggono feticisticamente la produzione siglata Adelphi come se fosse griffata Baricco e viceversa, che al Festival Letteratura di Mantova approcciano chiunque abbia al collo un “passi” chiedendogli: scusi, lei è un Autore?, e che perciò sono disposti, gli idolatri, a giurare che quello di Baricco è un capolavoro.
Lui, la carogna, gli fa le mossettine sornione, così che persino i recensori sono costretti a prenderlo sul serio e a parlare della struttura intimamente musicale del libro, dei due “movimenti” in successione di cui è composto il racconto, della sonorità e della ritmica rock che agitano le pagine.
(Della Tamaro invece si può anche tacere, dopo aver registrato in diverse pagine di Va’ dove ti porta il cuore frasi al di sotto della sufficienza come “il cane abbaiava come un pazzo”: come un pazzo, il cane, e ho detto tutto.)
Quindi l’eventuale incazzatura verso Baricco dovrebbe essere motivata dal fatto che lui non è per niente popolare, ma piuttosto specula sulle insufficienze culturali di un gusto medio-basso spacciando per merce sofisticata della para-letteratura. Popolare Baricco, vogliamo scherzare? Populista, semmai. Paraculo, nel caso. Uno che ha la tenuta morale che gli permette di chiudere il primo capitolo di Oceano mare scrivendo: “Non c’è nulla che possa, nel buio, diventare vero”. Qualcuno capisce perchè scolpisce “vero” in corsivo? A quale lettore o lettrice vorrà strizzare l’occhio con quella sottolineatura? Vorrà dire che il vero è più vero del vero? Vorrà segnalare che quel vero è falso? Oppure Baricco mignottescamente sa - sa- che per qualcuno particolarmente estatico, che legge il suo romanzo con le narici che fremono pregustando il godimento riga per riga dell’altissimo stile, quel corsivo è un indizio di artisticità, non tanto da leggere quanto da contemplare? Un segno del tutto in una sola parola? [...]
Edmondo Berselli, Post italiani. Cronache di un paese provvisorio, Mondadori 2003
(quanto mi manchi)


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