lunedì 30 dicembre 2013

2014

 anno nuovo


Dal 2014 lascio fuori i polemici, i musoni, i permalosi, i rabbiosi rancorosi, i violenti, i fanatici, le maschere, gli insistenti, chi scappa alla prima difficoltà una responsabilità mai, chi non spiega se non capisci e chi invece te l'avevo detto io, chi non canta mai nemmeno sotto la doccia, i perfettini sbagliare guai, i pessimisti cronici due domande mai, i maniaci dell'ordine, i monotono senza mai uno sbalzo di umore, chi non sa inciampare e le maschere di nuovo, tanto per ribadire il concetto del falsone.
Tutti gli altri li prendo con me, charlie brown e turlupinati in testa pancia e cuore, ci coccolo i difetti e le incertezze e ogni giorno un passino insieme, che l'anno nuovo mica si può sapere se sarà bello o brutto, ma così sarà sicuramente e imperfettamente più mio.
(maracaibo | za za)

animal spirit


(io pericolosa non lo sono mica tanto ahimè, nemmeno predatore, ma comunque, grazie a Mali Weil e alla mia adorata Chiera con la e, ora ho due calzari che non vedono l’ora di marcare il territorio con un’orma molto molto molto personale e soprattutto, come animal spirit, ho combattere, che per l’anno nuovo mi sembra una spinta perfetta.)

venerdì 27 dicembre 2013

Ragazza interrotta mentre suona

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“Non uno, ma tre, sono i Vermeer al Frick. La prima volta che ci sono stata, però, non ho fatto caso agli altri due. Avevo diciassette anni ed ero a New York col mio insegnante d’inglese, che ancora non mi aveva baciata. Pensavo a quel bacio futuro, che sentivo avvicinarsi, quando mi lasciai alle spalle i Fragonard per entrare nella sala che porta al cortile: il corridoio buio dove i Vermeer risplendono sulla parete.
 
Oltre che al bacio, pensavo al diploma: me l’avrebbero dato se non passavo biologia per il secondo anno di fila? Ero sorpresa della mia bocciatura, perché la materia mi piaceva; mi piaceva anche la prima volta ch’ero stata bocciata. Il mio argomento preferito erano i diagrammi della recessività dei geni. Mi divertivo a elaborare la sequenza degli occhi azzurri in famiglie che non avevano altre caratteristiche all’infuori di occhi azzurri e occhi castani. La mia famiglia aveva un sacco di caratteristiche (successi, ambizioni, talenti, speranze) che in me sembravano tutte recessive.
 
Non mi fermai davanti alla signora in veste da camera gialla e alla domestica che le porta una lettera e neppure davanti al soldato con il cappello sfarzoso e alla ragazza che gli sorride; immaginavo calde labbra, occhi castani, occhi azzurri. Quegli occhi castani mi catturarono.
Lo sguardo della ragazza punta fuori dal riquadro del dipinto, ignorando il robusto maestro di musica, che poggia la dispotica mano sulla sedia. La luce è smorzata, luce invernale, ma il volto della ragazza è acceso.
 
La fissai negli occhi castani e indietreggiai. Mi stava mettendo in guardia da qualcosa: aveva distolto lo sguardo dalla sua occupazione per mettermi in guardia. La bocca era appena aperta, come se avesse appena respirato solo per dirmi: "Non farlo!"
Mi ritrassi, nel tentativo di tenermi fuori dal raggio della sua premura, che tuttavia riempiva il corridoio. "Aspetta", diceva. "Aspetta! Non andare!"
 
Non l’ascoltai. Andai a cena col mio insegnante d’inglese, e lui mi baciò, e io tornai a Cambridge e andai male in biologia, ma mi diplomai lo stesso e, per finire, impazzii.
Sedici anni dopo ero a New York col mio nuovo, ricco fidanzato. Facevamo molti viaggi, che pagava lui, anche se spendere lo metteva in agitazione. Spesso, durante i nostri viaggi, criticava il mio carattere: disturbato, così lo avevano diagnosticato in passato. A volte ero troppo emotiva, altre troppo distaccata e sentenziosa. Qualunque cosa dicesse, ero pronta a consolarlo, dicendogli che faceva bene a spendere. Allora lui smetteva di criticarmi, il che voleva dire che potevamo rimanere insieme e ricominciare la tiritera al prossimo viaggio.
Era una bella giornata di ottobre a New York. Lui mi aveva criticata, io l’avevo consolato, e adesso eravamo pronti per uscire.
 
"Andiamo al Frick", disse lui.
"Non ci sono mai stata", feci io. Poi pensai che forse c’ero stata. Non dissi niente, avevo imparato a non parlare dei miei dubbi.
Arrivati lì, lo riconobbi. "Ah", dissi. "Qui c’è un quadro che mi piace."
"Solo uno?" disse lui. "Guarda questi Fragonard." Non mi piacevano. Mi lasciai i Fragonard alle spalle ed entrai nella sala che porta al cortile.
 
Lei era cambiata molto in sedici anni. Non era più premurosa. Anzi, era triste. Era giovane e distratta, e il suo maestro la incalzava perché gli prestasse attenzione. Ma lei guardava lontano, alla ricerca di uno sguardo che incontrasse il suo.
Stavolta lessi il titolo del quadro: Ragazza interrotta mentre suona.
Interrotta mentre suona: com’era stata la mia vita, interrotta nella musica dei miei diciassette anni, com’era stata la sua vita, strappata e fissata su tela: un momento reso immobile, per tutti gli altri momenti, qualsiasi cosa fossero o avrebbero potuto essere. Quale vita può guarirne?
 
Adesso avevo qualcosa da dirle. "Ti vedo", dissi. Il mio fidanzato mi trovò che piangevo nel corridoio. "Cos’è successo?" domandò.
"Ma non vedi, lei sta cercando di venirne fuori", dissi, indicandola.
Guardò il quadro, guardò me, e disse: "Non fai che pensare a te stessa. Non capisci niente di arte". Si allontanò per guardare un Rembrandt.
Da allora sono tornata al Frick, per guardare lei e gli altri due Vermeer. Dopotutto, i Vermeer sono difficili da trovare, e quello di Boston è stato rubato.
 
Gli altri due quadri sono autosufficienti. I personaggi si guardano l’un l’altro: la signora e la domestica, il soldato e la sua innamorata. Vederli è come sbirciare attraverso un buco in una parete. E la parete è fatta di luce: quella luce di Vermeer del tutto credibile eppure irreale.
Una luce così non esiste, ma vorremmo che ci fosse. Vorremmo un sole che ci rendesse giovani e belli, vorremmo vestiti che scintillano e s’increspano sulla pelle, vorremmo soprattutto che un nostro sguardo bastasse a ravvivare tutti quelli che conosciamo, come succede alla domestica con la lettera e al soldato col cappello.
La ragazza che suona posa in un altro genere di luce, l’intermittente, minacciosa luce della vita, che ci fa vedere noi stessi e gli altri solo in modo imperfetto, e assai di rado.”

Susanna Kaysen, La ragazza interrotta.

silence



http://www.flickr.com/photos/colettestyves/
Colette Saint Yves, Three times in New York: video memories, 2013.



domenica 22 dicembre 2013

013|014

linda vachon
Gennaio ho smesso di fumare, febbraio ho smesso le caramelle gommose, marzo e aprile ho smesso di respirare e mica solo per l’allergia, maggio ho pensato bene di smettere anche con l’equilibrio e mi sono fatta un male, ma un male, che per tutto giugno e luglio ho smesso tantissime cose, agosto, per via del mare, ho smesso col male, ma settembre una rabbia, una rabbia, che smettere è stato durissimo, ottobre non lo so bene cosa sia successo, ma dopo la rabbia ho smesso di cercare la corazza, nel senso che ho capito che inutile difendersi, io, la fragilità, ce l’ho ovunque, fa parte di me e la cosa migliore è volerle bene, altro che nasconderla, allora poi stranissimo, novembre ho smesso di preoccuparmi fuori e dentro e ho iniziato a pensare a me, gli altri dopo, ma su tutto ho capito e anche un po’ capitolo l’amore incondizionato grazie a una miniminimini nipote che ti accorgi di adorare già prima di conoscere e adesso, ora, dicembre, ora che ho smesso un sacco di cose sono pronta a iniziare.
La vita è strana, io, per me, è come una cosa ciclica che ogni tre o quattro anni si cade a caso e quando succede non ci sono cazzi, si sta male, si vede tutto nero di un nero che in confronto il grigio sembra un arcobaleno, ma poi a un certo punto capita sempre che vince lei, la vita, nel senso che riesce a farti sospirare talmente forte da buttare fuori tutto il marciume e riaccendere sorprendentemente il sorriso e l’entusiasmo.
E io, in questo periodo di feste che per chi sta smettendo qualsiasi cosa mica è facile, io nel mio piccolo vi auguro di cuore degli inizi fantastici.

zebra crossing

mercoledì 18 dicembre 2013

Il collezionista di bianco

Di giorno elimino le nuvole e rimuovo la neve, la spingo, la sciolgo e ne ricavo un ordine che mi scalda il vetro man mano che scende giù in gola.
Non parlo, mi concentro sulla manualità, nessuna controversia, niente da recuperare, la professionalità è essenza e allora io guardo, ignoro, accordo e proseguo. Pressione e diplomazia, sospetti, pratiche emergenze e fughe, sono l'ambasciatore indispensabile di me stesso.
Di notte tutto cambia, scendo nel mio caveau e tutto è differente, nessun eccesso di clima, solo bianco. Acrilico e lino, tela, carta e olio, tutto è puro, vivo, energia senza dislivello, un cerchio da chiudere gli occhi e andare avanti fino in fondo.
Ho iniziato con un taglio in una galleria di Bologna, poi ho scoperto il caolino, poi i chiodi e via via, dagli anni Cinquanta a oggi, solo io e loro, senza respiri, vetri e profumi di femmina, senza polvere e luci invasive, io e loro in ogni nervo a oltranza. E tutto il resto tace.

lunedì 16 dicembre 2013

Dominique Fortin | Sagesse

Sagesse I

Sagesse II

Sagesse III

Sagesse VI

Sagesse IV

Sagesse V

la mula di Parenzo

Hemingway, prima di spararsi, le sue ultime parole sono state un canto popolare che aveva imparato dalla Pivano a Cortina, un canto che anche quando si sentiva perseguitato e non c’era niente di facile lui lo cantava e stava meglio, un canto che  dopo io non lo so come sia possibile, nessuno poteva sapere, ma questo canto è diventato di un popolare diverso, un canto che insomma, è diventato questo canto qui:

venerdì 13 dicembre 2013

scarpe

.

Che belle scarpe che hai, come frase, quelli che studiano i fenomeni di comportamento della società e del costume dicono che sia tipicamente femminile e che agli uomini non verrebbe mai in mente di dirlo quando si incontrano. Può essere, boh, io da piccola al posto delle bambole mi arrampicavo sugli alberi e avevo un ragno che si chiamava Axl, un ragno che gli volevo un bene che guai, un ragno che ad occhi di gatto ero Tati e sul generale Lee Bo, un ragno che da grande non so cucinare e lucidare il piano cottura, non mi pitturo me e le unghie, uccido le piante e rubo la camicia ai maschi, un ragno che credo nel mescolarsi e al posto degli autoscatti foto col vinile da farci l’amore, un ragno che le calze a rete il posto dei calzettoni non lo avranno mai, un ragno che le scarpe le guardo sempre a tutti, per i tacchi impazzisco, ma pure per le papere, le bicolori e la doppia fibbia, un ragno che sono scarpa dipendente e però cammino sempre scalza, un ragno che ecco, secondo me, certe generalizzazioni sui fenomeni di comportamento della società sono tutte delle grandissime cagate.

Wenda Parkinson

Wenda Parkinson for Vogue, South-Africa, 1951
Wenda Parkinson for Vogue, South-Africa, 1951

e poi ci sono le cose che non si aggiustano più

rsmithing:<br /><br />By kitkite. http://ift.tt/1bAf9xi

photo By kitkite. http://ift.tt/1bAf9xi

Magritte’s hat

rery:<br /><br />Magritte’s hat for Artchipel<br />

Magritte’s hat for Artchipel

Merry Christmas Baby by Ike and Tina Turner


All that's left | Mike Harrison

giovedì 12 dicembre 2013

fuori fuoco


La nebbia non sono parole, sono gesti lenti da respirargli tutto fuori fuoco, non come ma dove, la nebbia sono bagni interminabili e disegni di carne allo specchio.

Dino Buzzati, Poema a fumetti, 1969

Dino Buzzati, Poema a fumetti

non uccidete il babau

poveravale:

"Il fatto è questo: io mi trovo vittima di un crudele equivoco. Sono un pittore il quale, per hobby, durante un periodo purtroppo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista. Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie". (Dino Buzzati)
NON UCCIDETE IL BABAU!
 
"Il fatto è questo: io mi trovo vittima di un crudele equivoco. Sono un pittore il quale, per hobby, durante un periodo purtroppo alquanto prolungato, ha fatto anche lo scrittore e il giornalista. Ma dipingere e scrivere per me sono in fondo la stessa cosa. Che dipinga o che scriva, io perseguo il medesimo scopo, che è quello di raccontare delle storie."
Dino Buzzati

martedì 10 dicembre 2013

Solo che no

Oggi in giro ci stavano i forconi, la gente si sta incazzando proprio ho pensato, poi invece su twitter, lì, in quello stesso momento, ci stava un sacco di gente che scriveva sui maltrattamenti degli animali in Romania, che mica vuol dire niente, ognuno scrive dei problemi che vuole, ci mancherebbe, solo che molti di quelli senza forcone lo facevano insultando tutto il popolo in generale, che mica tutti i rumeni sono brutta gente razzista e cattiva come dicevano loro, solo che lo facevano mostrando foto violente contro la non violenza che secondo me, a far così, uccidevano di nuovo i poveri animali morti e basta, solo che insomma, lo facevano con un'arroganza mista a banalità e fraintendimento del social che è un attimo non pensare per difendere un'idea e scivolare nella violenza verbale, solo che insomma no, il mio muso di cane sta guardandomi e non vorrei essere fraintesa, ma io no, decisamente no, secondo me la violenza non si risolve proprio in quel modo esagitato lì.
Punto.

Giorgio Vasta | Il tempo materiale

Big Brother by jeffcabella

“Noi vogliamo che il mondo ci dia del lei, che ci percepisca e ci rispetti, ma siamo impantanati in un’origine scolastica, puzziamo di quell’acqua terribile che agonizza nelle acquasantiere delle chiese, di tabelline imparate a memoria, di qualche rima incatenata, di segni della croce e di eroismi isterici.”

Giorgio Vasta - Il tempo materiale

Richard Buckminster Fuller | Valvole

Some midday Buckminster Fuller because, why not?<br />Over at Aqua-Velvet, there&#8217;s a fun photo essay featuring images taken for Life magazine of Fuller and his projects from the 1940s through the 1970s . (via The Rumpus)

“Sono nato strabico. È solo quando raggiunsi l'età di quattro anni che i dottori scoprirono che il mio strabismo era dovuto al fatto che vedevo anormalmente bene da lontano. Da lì la mia vista fu corretta con delle lenti. Fino all'età di quattro anni vedevo solo grandi forme, case, alberi, i contorni delle persone in colori confusi. Mentre scorgevo due aree scure sui volti umani, non vidi un occhio, una lacrima o un capello fino all'età di quattro anni. Nonostante la mia capacità attuale di vedere i dettagli, la mia dipendenza infantile e spontanea dalle forme di una certa dimensione mi è rimasta.
Sono convinto che né io, né nessun altro essere umano, passato o presente, sia stato o sia un genio. Sono convinto che ciò che c'è in me qualsiasi altro essere umano l'abbia in sé alla nascita. Naturalmente possiamo ipotizzare che tutti nasciamo geni per poi essere rapidamente degenizzati.
Circostanze sfavorevoli, miopia, sistemi nervosi fragili, nonché amori e paure filtrati dall'ignoranza degli adulti tendono a chiudere molte delle valvole che regolano le capacità del cervello dei bambini.
Io ho avuto la fortuna di evitare che mi fossero chiuse troppe valvole.”
 
Richard Buckminster Fuller

50 years 50 toys

via abby ryan design

via abby ryan design

lunedì 9 dicembre 2013

Luigi Ghirri

Luigi Ghirri, Marina di Ravenna, 1986 - da Paesaggio italiano (1980-1992
“La fotografia è una forma di lentezza dello sguardo.”
Luigi Ghirri

Cesare Pavese, L’arte di essere solo

Anthony_Gormley_Feeling_Materi
L’arte di sviluppare i motivetti per risolverci a compiere le grandi azioni che ci sono necessarie.
L’arte di non farci mai avvilire dalle reazioni altrui, ricordando che il valore di un sentimento è giudizio nostro poiché saremo noi a sentircelo, non chi interviene.
L’arte di mentire a noi stessi sapendo di mentire.
L’arte di guardare in faccia la gente, compresi noi stessi, come fossero personaggi di una nostra novella.
L’arte di ricordare sempre che, non contando noi nulla e non contando nulla nessuno degli altri, noi contiamo più di ciascuno, semplicemente perché siamo noi.
L’arte di toccare fulmineamente il fondo del dolore, per risalire con un colpo di tallone.
L’arte di sostituire noi a ciascuno, e sapere quindi che ciascuno si interessa soltanto di sé.
L’arte di attribuire qualunque nostro gesto a un altro, per chiarirci all’istante se è sensato.
L’arte di essere solo.
Cesare Pavese, L’arte di essere solo
(9 ottobre 1938)

sabato 7 dicembre 2013

della solidarietà

L'altro giorno una persona mi ha detto tutta contenta che ha iniziato a fare i mercatini dell'usato e che tutti i vestiti che non porta più, invece di buttarli, li vende ai marocchini che ne comprano a palate, soprattutto le tutine dei neonati.
Io allora, quando mi ha detto 'sta cosa, ho fatto una faccia delle mie, ma si vede che non si capiva bene perché questa persona qui, subito dopo, mi ha detto di darli a lei i miei vestiti usati, non alla caritas, che la caritas li vende.
Io allora, per farmi capire, ho fatto una faccia più faccia e le ho detto ma scusa, anche tu li vendi, ma lei mi ha detto che non è la stessa cosa e che non capivo.
Io allora, per capire, ho fatto una faccissima e ho detto non è la stessa cosa nel senso che la caritas o altre associazioni non so, ma te, i soldi, li tieni sicuramente per te?, ma lei mi ha urlato fortissimo che non capivo proprio niente, poi è andata via.
Io allora ieri, questa persona qui l'ho rivista e mi sembrava molto dispiaciuta, diceva pure un sacco di frasi famose di Mandela, allora non ho detto niente, ho solo pensato che ero proprio io che non capivo.

giovedì 5 dicembre 2013

Learco Pignagnoli | Opera numero 257


Il dizionario dei detti dilettali di Reggio Emilia riporta, alla voce Avarizia, il caso di una famiglia così taccagna che quando erano a tavola, pur di non consumare il tovagliolo, si pulivano la bocca con il gatto.
Learco Pignagnoli

domenica 1 dicembre 2013

Carne greve

Quando scopriamo dei muscoli che non sapevamo di avere, tipo a fare ginnastica, noi diciamo che abbiamo la carne greve e penso si dica solo a Reggio, penso, dalle altre parti gli piace dire acido lattico qualcosa, a noi carne greve, che non vuol mica dire pesante o angosciante, no, greve nel senso di viva, quel senso lì insomma, che quando dici che hai la carne greve fortissima riscopri sempre qualcosa in te di inaspettato, ma forse siamo strani noi.