sabato 27 settembre 2014

caffettino

Mia zia ha quella terribile malattia che di punto in bianco ti rapisce la testa, quella che io tutte le volte spero ci si senta un po’ come ubriachi, un po’ tutto appannato rallentato senza panico, tipo come quando una volta a Natale le abbiamo dato il cosmopolitan e lei siccome era buono ne ha bevuto subito un altro di stecca, tipo così, che se no poi mi immagono ancora di più, e comunque niente pensieracci, solo una sensazione di un dolce che mi son commossa, e cioè che ieri sono andata a trovarla e a un certo punto stavamo parlando di riso in bianco condito per tutti, che era un piatto un po’ strano che piaceva molto a mio papà, e allora lei, che più che parlare ascoltava, lei anche se non c’entrava niente con quello che stavamo dicendo, lei all’improvviso mi ha detto “mio marito è di un brutto che fa schifo”, ma l’ha detto con una risata fortissima che si capiva proprio che non voleva dire quello, e infatti dopo un po’ è arrivato mio zio e le ha chiesto “lo vuoi un gelato?” e mia zia, prima di rispondere lo ha fatto avvicinare e gli ha dato un bacino, poi gli ha detto “sì, così ti preparo il caffettino”, allora io ho pensato che l’amore è molto moltissimo quel caffettino lì.

venerdì 26 settembre 2014

prove pratiche

Dodici mesi di autunno e io che aspetto ancora l’estate, mi spalmo la crema e prendo la prima nebbia dell’anno, che chissà se varrà esprimere un desiderio, ma comunque a crederci in se stessi il futuro si affronta meglio e allora va bene anche se. Io alle persone che ci voglio bene, a me viene sempre da dirgli gli insulti dolci, tipo ma vai in coccola oppure spaccamaroni oppure fetentechessei, mi viene anche da fidarmi e ringraziarle, nel caso, ma ho notato che sta cosa ultimamente va poco di moda, ultimamente la gente è impiattata strana, solo domande da fermi, solo urla e tutto e subito e poi basta, allora a me delle volte viene lo sconforto e prendo i cani, la musica e certe volte pure la gatta e cammino, cammino, cammino, fino a quando non mi passa. Che io, a parlare di me sono mica tanto brava, per camminarmi devo scrivermi, allora di getto mi viene da pensare che la vita, certi canini che il sorrisone bisognerebbe far di tutto per tenerselo, e invece i finti problemi, l’orgoglio, l’arroganza, i silenzi che uno aspetta e aspetta ma aspetta cosa?, i concetti che sembrano budini, i per sempre che fanno paura, i grazie non detti, i distacchi obbligati, io a tutte queste pizzicatine qua io gli toglierei il grembiule, che i lieti o non lieti fine son poi sempre nuovi inizi. (fischietta)

venerdì 19 settembre 2014

divaghiamo pure

I miei nonni, un anno, scoprirono un paesino sperduto in una valle del Trentino e niente, si innamorarono talmente tanto di quella luce lì che si trasferirono, allora io, a neanche un mese, a me i miei mi hanno portato là, che c’era l’aria buona, dicevano, mio fratello lui che è più grande prima lo portavano sempre al mare, e infatti siamo diversi, tipo che io c’ho i capelli e lui no, lui sempre fame e io mai, io arrampicarmi lui nuotare, forse è l’altitudine, non so, ma non divaghiamo.
Io del Trentino, noi emiliani abbiamo sta cosa che quando un nome è doppio usiamo solo il primo, tipo diciamo mi passi il parmigiano e intendiamo il parmigiano reggiano, lo dico perchè sul twitter a parlare del Trentino mi hanno spiegato la differenza tra provincia e regione, ma secondo me la conoscevo anch’io e comunque non divaghiamo, dicevo, io del Trentino da piccola piccola mi ricordo dei personaggi incredibili, tipo il Candido e la Candida che nel biberon dei loro gemelli mettevano sempre latte e grappa così si scaldavano e crescevano furbi, dicevano, che uno può pensare ma no dai la grappa a un neonato? e invece i gemelli son poi diventati dei luminari, allora forse un po’ di grappa sarebbe servita pure a me, ma non divaghiamo.
Io del Trentino, dicevo, io da piccola piccola, oltre al Candido e la Candida (le mogli le chiamavano sempre col nome del marito, tipo Franco e la Franca, Cubotto e Cubotta, tipo così), io mi ricordo le signorine Tettamanzi di professione fruttivendole alla ricerca del grande amore e per questo non troppo amate dalle altre signore (a me comunque, va detto, a me regalavano sempre le caramelle soprattutto quando ci andavo col mio papà e quindi, allora, a me sono sempre state simpatiche), poi mi ricordo Sisino, che per le sue mucche immaginarie riempì talmente tanto una casetta di fieno da farla scoppiare (un boato strepitoso che echeggiò di valle in valle, ma fortunatamente le mucche si salvarono tutte), poi Primo, che mi insegnava a pescare con le scatolette di tonno, la Peppina, signorina di accompagnamento in pensione, forse amica delle Tettamanzi, sicuramente grandissima bevitrice di caffè, e su tutti mi ricordo il Brida, che a me siccome era enorme e barbuto e viveva nel castello del paese, a me era un idraulico che faceva una paura, ma una paura, che anche adesso, a ricordarlo, ho soggezione. Ma non divaghiamo.
In questo strano paesino, oltre a me, ai miei nonni e ai suddetti personaggi, c’erano solo dei bimbi maschi (una volta arrivò una femmina, ma fu azzannata da Spartaco, il cane del paese, allora dopo non tornò più), quindi io sono cresciuta un po’ così, ruspante, tipo che al posto delle bambole vivisezionavo cavallette o allevavo ragni, oppure facevo le gare con lo skateboard che mi piaceva da matti, oppure mi arrampicavo sui sassi (avevo pure il sasso personale che nella mia fantasia era un cavallo e si chiamava Black), sempre di corsa e piena di croste, un po’ zingara e un po’ maschiaccio, e infatti quando tornavo in Emilia che ricominciavano le scuole, oltre alla cappa mi ricordo che in tv davano tutti gli anni miss Italia e a me, a guardare tutte ste tipe pettinate e truccate, a me veniva sempre la soggezione come col Brida, allora almeno mi infilavo le scarpe. Ma non divaghiamo.
Scarpa dopo scarpa, dopo, poi, col tempo, dopo sono cresciuta anch’io, allora è successo che no, il lato barbie manco oggi, però lady disaster dopo è venuta pian piano alla luce, e allora ok reggio rizzone il mare e les folies, ma i primi morosini, le nottate aglio olio e pane appena sfornato, il Natale, il fuoristrada col range, dopo gira e rigira tutto in montagna, che la testa, divaghiamo pure, bisogna tenerla sempre aperta e le stelle con la neve si vedono meglio.

lunedì 15 settembre 2014

Tu guardi me come il particolare di un affresco dal titolo provvisorio Primo giorno di scuola

“Quello che c’è di bello sugli autobus è che l’idea di scendere ti sembra la conquista della felicità. Schiacciata in fondo, con la spalla di quello davanti che sembra la continuazione del mio mento, i libri (anzi il libro - l’ultimo Chandler - più il quaderno, un quaderno a quadretti) che non cadono solo perché non saprebbero dove cadere, i capelli impigliati nella cuffia come se non me la levassi da due mesi. E poi le facce: otto facce di studenti tipo - dove-hai-passato-le-vacanze, lavati e già annoiati. Sicuramente frigidi: si vede dalla peluria sopra le labbra. Fetenti di caffelatte riscaldato, denti cariati, acidi di sonno, coi jeans stirati perché è il primo giorno di scuola e «visto che vuoi andare vestito a quel modo, almeno che abbiano la piega». Salgono due ragazzine senza culo: quarta ginnasio?
Sembra che tutto il settore schiacciami-contro-il-vetro dell’autobus sia studentizzato, giuro che se sento un altro parlare di comprare libri al mercato dell’usato gli mordo la ciccia delle cosce. 
C’è un solo vero cittadino adulto con un sorriso idiota, tipo revival, la giacca cascante e due dita strette attorno al biglietto come se fosse una farfalla. Credo che stia pensando cose tipo “beati loro” (noi), tutto intenerito dall’inquinamento sonoro da primo giorno di scuola. Questi schiamazzi disorganizzati gli sembrano garruli e lieti, tutto questo putiferio di dita nel naso, mani sudanti su quaderni chiusi, dita unte su pizze bianche, ricordi estivi carichi di bugie confidenziali e inconsistenti timori per l’inverno gli sembrano, a questo becero in brache di tela, la poesia dell’adolescenza o qualche stronzata del genere. È evidente che ci guarda senza vederci. Ci considera una specie di stagione. Un sostantivo collettivo, con la maiuscola. Sta rivivendo la prosa del discorso inaugurale del presidente Leone. A vederlo così convinto che il mondo al tre di ottobre va per il suo verso mi viene voglia di urlare. Ma che ti credi, che sia divertente alzarsi una mattina e sapere che cosa farai per le 326 mattine seguenti? Adesso gli metto addosso due occhi d’odio profondo e vediamo se scende da cavallo. Non sono un topino bianco. Non mi si può fissare impunemente. Io quando mi sento sull’orlo di una crisi di identità, in genere faccio qualcosa. Agisco. Mi spacco la faccia in un sorriso ammiccante (sì, guardo proprio te, cretino. Tu guardi me come il particolare di un affresco dal titolo provvisorio Primo giorno di scuola. Io guardo te come un individuo caduto da un albero).
Trent’anni, faccia lunga, giacca da barbone e nessun diritto di stare su quest’autobus di dolore che mena a scuola, pensando “quant’era bello quando anch’io andavo al macello”.
Nell’alternarsi aritmico degli scossoni, siamo già vicini. Non sei brutto, ma puzzi un po’ di chiuso, hai gli angoli della bocca rancidi e i baffi macchiati in punta. Guarda: inutile che fai finta di non aver notato la manovra. (Se trattengo il fiato e tiro indietro le spalle, forse ce la faccio a far saltare un bottone). Tiro un sospiro e passo e ripasso con la punta della lingua sul labbro superiore (troppo scoperta?). Al prossimo semaforo avrà le palle più o meno contro la copertina del quaderno. 
Ebbene sì, caro, hai davanti a te un simbolo del sesso. Soda come un uovo sodo. Bionda come nei libri. Avrò ancora capelli quando tu sarai già ridotto a trapiantarti i peli del cazzo sopra le orecchie. Stan più ritti i miei seni delle tue erezioni. Niente. Però non distoglie gli occhi, e neanch’io e mi lacrima il rimmel e la cosa comincia a farsi eccitante. Mancano tre fermate. Allora, se scendo e mi segue, non vado a scuola. Se non mi segue, piglio l’autobus che viene dopo. Ultima occhiata: con la coda come le comete.
È sceso e sento i suoi passi dietro sul selciato. Tra me e lui due palmi d’aria. Non mi spavento solo perché l’ho voluto io: è come levarsi i denti da soli, con il cordino e il portone. Sanguina e non sai come andrà a finire, ma sempre meglio che andare dal dentista.
Non so che direzione prendere, ma bisogna sbloccare la situazione: se mi fermo e si ferma anche lui, vuoi dire che mi segue proprio: Mi segue proprio.”

Antonia, Porci con le ali
(Oggi a passare davanti alle scuole mi è troppo venuto in mente)

giovedì 11 settembre 2014

La leggerezza della trapezista

A parte occa boia, che è una via di mezzo tra oca orca e vacca vocca che ho sentito dire in posta da un vecchietto con le tasche piene per la fila, a parte questa, occa boia, noi emiliani diciamo "ma taci" o "lascia stare" quando non è che ci sia da tacere o lasciare stare, è più un'introduzione a un discorso da ascoltare, tipo bensì comunque peraltro la famigerata domanda "sì o no?", che non è che ci sia da rispondere, è più un'esclamazione in risposta al discorso ascoltato, tipo bensì comunque peraltro quindi allora gli eventi, è meglio lasciarli correre da soli gli eventi, in quanto le teste occa boia se partono e siccome l'ansia non si può ingessare, delle volte bisogna solo aspettare, tipo bensì comunque peraltro le teste stavolta.

venerdì 5 settembre 2014

stimoli

JeeYoung Lee #4
Settembre e piove, la glaciazione i maya le muse le madonne e la gente disonesta, settembre pure io, eterna pollyanna, ci sono delle volte che me lo chiedo se faccio proprio bene bene ad avere sempre fiducia nel genere umano, ma siccome quando arrivo a quel punto lì ho sempre il nervoso forte, io le mie cosce le croste e i passi, io non mi sforzo neanche a rispondermi, preferisco fare dell’altro, che tanto dopo lo so che quel qualcosa capace di farmi stare meglio arriva sempre. Tipo realizzare che gente tanto diversa da noi serve a ricordarci esattamente quello che non vogliamo mai diventare. (ridere è bellissimo)