giovedì 30 aprile 2015

maggio

“Io e il mio cuore non siamo mai vissuti fino a maggio, e nella mia vita passata c'è solo il centesimo aprile.”

 
Vladimir Majakovskij, La Nuvola in calzoni

[io, però, per me, io dico proviamo]

mercoledì 29 aprile 2015

Andrea Pazienza, Ciao come stai? (lettera dal Dams)

Bologna, 28 gennaio 1975

Ciao bella

Sto fumando una sigaretta, ho appena finito di pranzare, e sto battendo a macchina questa nella stanza di Nicola e Robby, poiché Gino, dopo una notte insonne, non si è ancora svegliato.
Mezz'ora fa, aggrappato ad un telefono in un bar, ti parlavo.
Odio il telefono.
E' uno strumento freddo e distante, incapace a far trasparire il benché minimo sentimento, ed assolutamente inadatto come mezzo di augurio.
E i miei, stamane, volevano essere i più sinceri possibili, non solo in apparenza ma perché realmente tali.
Ti scrivo questa di getto, usando le copertine di alcune dispense di regia, perciò scusa gli eventuali errori e l'evidente ineleganza strutturale.
Ho provato diverse volte a scriverti, ma in tutti i tentativi il bisogno di originalità e l'assoluta mancanza di idee mi hanno sempre fregato, costringendomi ad appallottolare il foglio dopo due righe e a gettarlo nel cestino già colmo.

Odio il telefono.
Ciao come stai?
Bene grazie, e tu?
Anch'io bene, grazie.

Ciao, come stai? Cosa si può rispondere in un telefono con quindici gettoni dentro, col tempo contato, mentre il cuore ti scoppia dalla gioia di parlarti e lotti per non darlo a vedere, e il giradischi o la radio sono a tutto volume e il locale è pieno di gente?
Bene grazie.
Non ti puoi mica mettere a urlare che mangi riso al burro da due giorni, a pranzo e a cena, che non vedi una bistecca da una settimana, e che ti sembra di star bene solo perché non stai peggio degli altri studenti, che più o meno vivono come te.
Non puoi mica urlare nella cornetta che sei stanco di non far niente, stanco delle nottate passate in luoghi fumosi, in cinema di terza, a giocare a carte, a leggere Godard, a sognare Pescara, a frequentare ragazze nottambule e senza scrupoli, a disegnare con rabbia e senza voglia, a giocare a pallone in un campetto male illuminato, a studiare "PHOTOGRAPH" seduto sulla tazza del cesso, ad aspettare autobus che non arrivano mai, ad inseguire donne misteriose sotto i portici, a misurare lo spessore della nebbia in piazza Maggiore, a frequentare cabaret sulla via del fallimento, quattro gatti e una chitarra, barzellette e canti cileni, bowling deserti, a bere cioccolate nei bar dell'ultima ora, a rompersi le palle nei cineforum, stasera giriamo le gallerie d'arte, c'è Emmanuelle, compriamo una bottiglia di Ballatine's o di Chivas Regal e tiriamo l'alba.

Come sto?

Sto che ne ho le tasche piene di disegnare ascoltando Supersonic, per voi giovani, Popoff, Stevie Wonder, Miles Davis, Alice Cooper, i Chicago, etc, non ne posso più di svegliarmi ogni giorno alle quattordici, se tutto va bene, la stufona non ha perso gas e sono morto, o se non apro gli occhi su un cielo già maledettamente stellato.
Cosa posso dire per telefono?
Che l'università forse funziona, ma io non posso dirlo perché non ci vado mai?
Che sono di nuovo impelagato nella politica, che passo ore a sfidare sconosciuti a ping pong nel circolo studentesco, che vorrei piangere al pensiero della pila inverosimile di piatti che mi aspetta appena finita questa lettera?
Come va?
A cazzo di cane, ecco come va.
Sono un’artista vero Isa?, e non posso per questo permettermi il lusso di essere volgare. Ma io me ne frego di essere un'artista, se poi non posso dire ciò che penso sino in fondo!
Se l'essere un’artista, ammesso che io lo sia, e nutro dubbi in proposito, deve condizionarmi, ebbene io non sono un'artista, sono uno studentaccio volgare, scurrile, triviale, meridionale e cafardo!
E porca Eva, che vita di merda!
A Pescara, almeno, non mangiavo nemmeno lì tanto, anzi facevo la fame, ma mi sentivo più pulito, dentro e fuori, qui con una doccia al giorno riesco sì e no a grattarmi via un'oncia di smog, e per pulirmi "dentro" non basterebbe una fabbrica di detersivi.
Ragazzone DAMSiste con i capelli sporchi e tampax grossi così sotto i jeans, che sembra abbiano l’uccello al posto della fica, omosessuali musicisti, maoisti pazzi e sconcertanti nelle loro pretese, ecco con chi ho giornalmente a che fare.
Sono stato a cercare di mettere un po' d'ordine nel collettivo di facoltà, secondo le nuove ristrutturazioni ideologiche attuate da Mao durante la rivoluzione culturale, posso farlo essendo rappresentante del Vento Rosso, e mi hanno preso per REAZIONARIO solo perché il fare sciopero per aiutare i postelegrafonici di Modena non credevo potesse servire a noi del DAMS.
Manifesto, Lotta Continua, Marxisti-leninisti, Maoisti, Radicali e Comunisti qui nella rossa Bologna si scannano fra loro, invece che unirsi e combattere i Parlamentini.
Sono stato a sentire Venditti al Palasport e mi hanno accusato di scarsa intellettualità.
Chiedo loro chi era Schopenauer e non lo sanno!
Se Squarzina (regia) mi dice, dopo un'intervento, "osservazione esatta, bravo", faccio la figura del leccapiedi, e se vado un giorno in facoltà con le scarpe da tennis, tutti a dire: "toh, Andrea con le scarpe da tennis", lasciando facilmente intuire che una delle loro più importanti occupazioni sia il vedere e annotare con che paio di scarpe APAZ viene a scuola!

Ragazze con pellicce di lupo, borsa di Viton, loden da ottantamila lire, gonne di E. Laurent, e tipini in raiban a specchio, magliette Ritz in cachemire e Barrown, mi danno del provinciale se porto tutti i giorni lo stesso jean, a tubo, e gli scarponi.

Al diavolo.
Maledetto telefono.
Come stai?
Bene grazie...e tu?
Così Così (oppure bene, o male, o benissimo, o benissimo)
(o malissimo, o malissimo, oppure bene grazie)
Ti passo Sandra, vuoi parlare con Sandra?
Sì, grazie.
Saaaaaaaaannnnnnnndddddrrrrrrraaaaaa!!!!!
Ciao Sandra.
Ciao Andrea come stai?
Potrei star peggio, e tu?
Così così, ti ripasso Isabella.
Ciao Sandra.
Ciao Andrea.
Ciao Isabella.
Ciao Andrea.
Come va con Guido?
Bene, da un po' bene.
Meno male.
...
Auguri.
Grazie.
Ciao.
Ciao Andrea.
Ciao Isa.
Ciao.
Ciao.
CLICK.
Ed è la fine.

Fine della conversazione, della telefonata, dei gettoni.
Volevo dirti tante cose e non ti ho detto niente.
Vorrei tanto vederti e parlare con te, verrai a Pescara?
A Pescara, l’otto febbraio.
Porta tutti, se puoi, se loro possono e se volete.
Dillo anche a Nanni, credo di essergli amico.

OGGI, VENTOTTO FEBBRAIO MILLENOVECENTOSETTANTACINQUE, LA DOLCE ISABELLA COMPIE QUINDICI ANNI. AUGURI.

Andrea.

 

mercoledì 22 aprile 2015

scarabocchi

Vincenzo Agnetti, In principio era la negazione in attesa dello stupore, 1970

Io son dei giorni che leggo la stessa pagina di un’antilope col campanellino e mi addormento, poi mi sveglio, rileggo, penso che non ho energia, mi riaddormento. Anche a camminare faccio fatica, che ho la forza di un bradipo e mi sento tipo un elefante sui tacchi a spillo, ma la cosa più importante è che ho rinunciato a voler capire a tutti i costi, allora mi arrivan delle frasi in testa tipo folgorazioni e poi immagini e fitte all’ombelico, che è una cosa strana ma nota, e adesso non mi fa paura, come quando occhi chiusi ti lasci trasportare dalle onde, che dicono che è una roba simile a quando sei nella pancia e devi nascere, e vuol dire questa cosa, e non mi fa paura, ora no. Ho anche notato che c’è un sacco di confusione sulle persone fragili, tipo che l’immagine è quella di un calice di cristallo che non sai come maneggiare perchè hai paura di romperlo, invece a pensarci bene uno il bicchiere lo porta in bocca e poi giù il vino in gola, quindi non si dovrebbe aver paura, semplicemente delicatezza, mi pare. Comunque quando si tratta della fragilità, l’errore più grande è aggrapparsi alla conclusione più logica, lì si cade nel pregiudizio, non è vero ad esempio che una persona non si fa sentire perchè se ne frega, molto spesso non vuole preoccupare o si vergogna di essere così indifesa, che raccontarsi nudi è come lanciare in quel calice una monetina con una forza da far tintinnare tutto e di più. Ci vuole pazienza con gli scarabocchi, vanno coccolati da matti, anche perchè non ci arrivano alle cose ovvie, vanno ribadite e ribadite, tipo che io, a sentirmi dire ti voglio bene, a me vien sempre da dire ma veramente? a me? Io comunque, adesso, io per me ho abbracci e lamponi, e li sento, e tutto questo è molto molto dolce. 
[Antilope, campanellino, zero forza, scarabocchio, dormire, svegliarsi, lampone, rileggere, antilope, campanellino, sorridere, zero energia, lampone, abbracci, prima o poi il perchè lo capirai, dormire di nuovo].

domenica 19 aprile 2015

l’equazione di Dirac

A me la matematica, la fisica, la geometria astronomica e pure la chimica (ma meno), a me fanno cagarissimo, ho fatto il classico apposta, però ho letto di questa equazione qui, che si chiama equazione di Dirac, che dice che “se due sistemi interagiscono tra loro per un certo periodo di tempo e poi vengono separati, non possono più essere descritti come due sistemi distinti, ma in qualche modo, diventano un unico sistema. In altri termini, quello che accade a uno di loro continua ad influenzare l’altro, anche se distanti chilometri o anni luce”. 
Io i calcoli mica li ho ben capiti, però noi siam gente di un sistema bello bello così, mi pare.

venerdì 17 aprile 2015

depistar la bestiola

The King of Minotaurs Pablo Picasso 1958 #picasso #art
Pablo Picasso, The King of Minotaurs ,1958
Ieri ho pensato che son giornate che la strada per tornare a me è tipo un labirinto cazzutissimo con dentro un Minotauro che fa le fusa mentre sbadila le rotonde, allora a parte che la bussola nel labirinto è impazzita, ma un qualche filo lo so che lo troverò, a parte questo, io, dopo, ieri, io per depistar la bestiola dopo mi son fatta i capelli rossi rossi, che il toro si sa che come colori preferisce dell’altro, ma io, per tornar a me, che poi sei te, io secondo me magari sbaglio ma dico rosso, lingua al gusto di medicina amara ma rosso, testa ovattata ma rosso, magenta e rosso. Dopo poi alla sera, dopo ho scoperto che mentre facevo i miei viaggi a immaginarmi il mio Minotauro interiore, ieri in contemporanea c’è stato anche un terremoto forte a Creta, allora un po’ mi è venuto da ridere, che gufata a parte, quando voglio rompere i maroni a qualcuno modestamente li rompo con una ricerca stilistica che non starei a cercar ulteriore testimonianza ma andrei oltre a oggi, che infatti anche oggi ho avuto un’illuminazione, un’altra, e cioè che pure Picasso ha avuto il periodo del Minotauro, per lui era il simbolo dell’angoscia e della violenza sovraumana e l’ha messo in un sacco di opere, pure in Guernica, però a parte il fatto che il suo mostro non aveva il badile, il mio sì, pure un martelletto, io siccome oggi mi va di provar a sdrammatizzare un pochino, di Picasso e il Minotauro preferisco focalizzarmi su questa foto qui sotto, che insomma lo sapeva pure lui, prendere un po’ per il culo le paure di certi periodi aiuta, diobono se aiuta.
(penso che il filo magico avrà a che fare con gli abbracci e le presenze nonostante i nonostante, penso)
Pablo Picasso wearing a cow’s head mask on beach, 1949
Pablo Picasso wearing a cow’s head mask on beach, 1949

martedì 14 aprile 2015

in mezzo

“Message For A Friend” by Vesna

Ci son delle situazioni che è tutto talmente chiaro che a viverle le parole non servono neanche, poi però invece io, per me, io ci son anche dei buchi di sberle che non ci capisci proprio più niente e allora ti ritrovi a elemosinare anche solo una parola per capire lo scarabocchio atono nel quale sei finita. In mezzo dovrebbe esserci qualcosa, credo. Forse siamo noi i nostri muri peggiori e siccome non sappiamo se e come abbatterci preferiamo appassirci, forse la gente ha delle strane cerniere sulla pancia apri, ingoia, chiudi, getta, dimentica, forse la mia cerniera è difettosa, forse porcocazzo la vera cura del Battiato è questa fatica merdica che facciamo ogni giorno per stare bene, oppure forse siamo solo un equilibrio di strane sostanze chimiche e allora funziona tipo lo zucchero nel caffè, aggiungi togli aggiungi togli e poi risolvi. Mezza compressa al mattino per sette giorni, poi una, sempre al mattino, per due tre mesi, poi vediamo. Ma come la mettiamo col fatto che il caffè andrebbe sempre assaggiato dalla bocca di chi te lo zucchera? In mezzo dovrebbe esserci qualcosa, credo.

lunedì 13 aprile 2015

futuro

Non sarai neppure ricordo, e quando ti penserò, penserò un pensiero che oscuramente cerca di ricordarsi di te.

Julio Cortázar

venerdì 10 aprile 2015

Aimee Bender, La donna che ricordava

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Il mio ragazzo sta vivendo un’evoluzione al contrario. Non ne parlo con nessuno. Non so come sia successo, so solo che un giorno era il mio ragazzo e il giorno dopo era una specie di scimmione. Tempo un mese, e adesso è una tartaruga marina. Lo tengo sul bancone della cucina, in una pirofila piena di acqua salata. «Ben», dico alla sua testolina che sbuca dal guscio, «mi capisci?», e lui mi fissa con due occhi che sembrano minuscole gocce di catrame, e io verso lacrime nella pirofila, un mare di me.
Torna indietro di un milione di anni al giorno. Non sono una scienziata, ma a occhio e croce ho calcolato che il ritmo è questo. Sono andata dal mio vecchio professore di biologia dell’università e gli ho chiesto di buttarmi giù una cronologia approssimativa della nostra evoluzione. Sulle prime si è infastidito: voleva dei soldi. Gli ho detto che l’avrei pagato volentieri e si è rasserenato parecchio. La cronologia che mi ha scritto riesco a stento a leggerla – avrei dovuto chiedergli di batterla al computer – e ho scoperto che è sbagliata. Secondo lui il processo completo avrebbe richiesto grosso modo un anno, ma da come sta andando penso che ci resti meno di un mese.
All’inizio la gente telefonava chiedendo dov’era Ben. Perché non era al lavoro? Perché non si era presentato al pranzo con quei clienti? In libreria era arrivato quel volume fuori catalogo sulla storia della civiltà ordinato apposta per lui, poteva per cortesia passare a ritirarlo? Io rispondevo che era malato, di una malattia strana, e li pregavo di smettere di cercarlo. La cosa ancora più strana fu che smisero davvero. Smisero di chiamare. Nel giro di una settimana il telefono era muto e Ben, il babbuino, se ne stava accoccolato in un angolo accanto alla finestra, avvolto nelle tende, a bofonchiare fra sé e sé.
L’ultimo giorno che l’ho visto da umano, era triste per lo stato del mondo. Non era una cosa insolita. Lui era spesso triste per lo stato del mondo. Era uno dei motivi principali per cui lo amavo. Ce ne stavamo seduti vicini e ci intristivamo insieme, e pensavamo a quanto eravamo tristi, e a volte parlavamo della tristezza.
Il suo ultimo giorno da umano, mi ha detto: «Annie, ma non capisci? Stiamo diventando troppo intelligenti. Il cervello ci cresce sempre di più, e quando c’è troppo pensiero e troppo poco cuore il mondo si inaridisce e muore».
Mi ha rivolto uno sguardo eloquente con gli occhi azzurri imperturbabili. «Come me e te, Annie», ha detto. «Noi due pensiamo troppo».
Mi sono seduta. Ho ripensato alla prima volta che avevamo fatto sesso. Avevo lasciato le luci accese, tenuto gli occhi aperti e mi ero tutta concentrata sul lasciarmi andare; poi mi ero accorta che anche lui aveva gli occhi aperti e nel bel mezzo della cosa ci eravamo seduti per terra e avevamo intavolato una conversazione di un’ora sulla poesia. Era stato tutto molto strano. E tutto molto familiare.
Un’altra volta mi ha svegliato nel cuore della notte, mi ha tirato su dalle lenzuola celesti, mi ha portato fuori, sotto le stelle, e ha sussurrato: Guarda, Annie, guarda: non c’è spazio per nient’altro, solo per sognare. Io sono stata ad ascoltarlo, insonnolita, poi lemme lemme sono tornata a letto e mi sono ritrovata sveglissima, a fissare il soffitto, del tutto incapace di sognare. Ben si è riaddormentato subito, ma io di soppiatto sono uscita di nuovo. Ho cercato di fare un sogno che mi portasse fino alle stelle, ma non sapevo come. Ho cercato una stella su cui nessuno, in tutta la storia, avesse mai espresso un desiderio, e mi sono chiesta cosa sarebbe successo se l’avessi fatto io.
Il suo ultimo giorno da umano, si è preso la testa fra le mani e ha sospirato, e io mi sono alzata, gli ho baciato tutta la nuca, coprendo quella carne, esprimendo desideri lì sopra perché sapevo che nessun’altra donna era mai stata così metodica, nessuna gli aveva mai baciato ogni centimetro di pelle.
L’ho proprio rivestito di baci. Che desiderio ho espresso? Ho sperato che andasse tutto bene. Solo questo. Che andasse tutto bene. I miei desideri sono diventati generici già tanto tempo fa, quando ero piccola: ho capito presto a cosa si andava incontro se si desiderava qualcosa di specifico. L’ho abbracciato e ci ho fatto l’amore, con il mio uomo triste. «Visto, adesso non stiamo pensando», gli ho sussurrato all’orecchio mentre lui mi baciava il collo, «non stiamo pensando per niente», e lui mi ha premuto la testa contro la spalla e mi ha stretta più forte.
Alla fine, siamo tornati fuori: non c’era la luna, e la notte era buia. Mi ha detto che odiava parlare e che voleva soltanto guardarmi negli occhi e dirmi le cose stando così. Io l’ho lasciato fare e mi hanno messo brividi di emozione, le cose che aveva negli occhi. Poi mi ha detto che voleva dormire lì fuori, per qualche motivo, e la mattina dopo quando mi sono svegliata nel letto ho guardato fuori, sul patio, e ho visto uno scimmione stravaccato sul cemento che si copriva la testa con le grosse braccia pelose per ripararsi dal sole abbagliante. Ancora prima di vedere gli occhi ho capito che era lui. E una volta che ci siamo ritrovati faccia a faccia, lui mi ha guardato con la sua solita espressione triste e io ho abbracciato quelle spalle enormi. Non me ne importava neanche, in quel momento, sulle prime. Non mi è preso il panico e non ho chiamato il pronto intervento. Mi sono seduta con lui lì fuori e gli ho accarezzato il pelo sul dorso della mano. Quando ha fatto per toccarmi gli ho detto No, a voce alta, e lui apparentemente ha capito e si è tirato indietro. A tutto c’è un limite.
Siamo rimasti seduti sul prato a strappare i fili d’erba. Non ho sentito subito la mancanza del Ben umano: volevo conoscere anche lo scimmione, volevo prendermi cura del mio ragazzo come fosse un figlio, o un animale domestico; volevo conoscerlo in ogni modo possibile, ma non mi ero resa conto che non sarebbe più tornato. Adesso rientro dal lavoro e cerco la sua figura a dimensioni normali che gira angosciata per casa, e ogni volta mi rendo conto che non c’è più. Faccio avanti e indietro per i corridoi. Mastico interi pacchetti di chewing gum nel giro di pochi minuti. Ripasso i miei ricordi e mi assicuro che siano ancora intatti, perché se lui non c’è più, allora è compito mio ricordare. Penso a come mi abbracciava e mi stringeva tanto forte da mettermi a disagio, e alla sensazione del suo respiro sul mio orecchio: bella.
Quando entro in cucina, sbircio nella pirofila e vedo che adesso è diventato una specie di salamandra. È piccolo. «Ben», sussurro, «ti ricordi di me? Ti ricordi?» Lui alza gli occhi al cielo e io gli verso qualche goccia di miele nell’acqua. Una volta gli piaceva tanto, il miele. Lo lecca e poi nuota verso il lato opposto della pirofila. Eccolo il limite dei miei limiti: è qui. Non sai mai per certo dov’è, poi ci sbatti contro e bam, ci sei arrivata. Perché non posso sopportare di guardare nell’acqua e non riuscire più a trovarlo, di perlustrare le minuscole onde trasparenti con una lente da microscopio e individuare il mio ragazzo, il prodigio unicellulare, ingrandito e scontornato, decerebrato e innocuo, diretto, con le dimensioni e la trasparenza di una di quelle macchioline oculari, verso il nulla.
Prendo la macchina, lo poso sul sedile destro e lo porto in spiaggia. Mentre cammino sulla sabbia saluto con la testa la gente sugli asciugamani, col corpo steso al sole e piena di speranza. Sul bagnasciuga mi accovaccio e appoggio la pirofila sulla punta di una piccola onda. Galleggia bene, è una barchetta da cucina, che qualcuno dovrebbe trovare arenata sulla spiaggia e usare per fare i biscotti, bottino ideale per un poveraccio con gli ingredienti tutti sottomano, ma senza recipiente.
Ben la salamandra nuota fuori dalla pirofila. Io agito le braccia verso l’acqua, con un gesto abbastanza ampio perché mi veda bene, in caso si volti a guardare. Mi giro e torno alla macchina.
A volte penso che prima o poi le onde lo riporteranno a riva. Un uomo nudo con lo sguardo stralunato. Che ha viaggiato nella storia ed è tornato indietro. Tengo d’occhio il giornale. Controllo che il mio numero sia sull’elenco. La sera passeggio qui intorno, in caso non si ricordi di preciso dov’è che abitiamo. Esco a dare da mangiare agli uccellini e a volte, prima di mettermi a letto sola come sono, mi tocco il cranio di qua e di là per vedere se si sta ingrandendo e mi chiedo, se così fosse, che cosa di utile potrebbe riempirlo.

Aimee Bender, La donna che ricordava in “La ragazza con la gonna in fiamme”

le finte distanze

Del fare l’amore mi piace che all’improvviso hai tutti i sensi più grandi e più vicini e non serve parlare, pensare o peggio ragionare, tutto esplode insieme a te e non esistono distanze, zero difese, paure o dubbi, quello è un momento bello bello che ti colora e non hai bisogno proprio di nient’altro, allora io, siccome oggi son dei giorni che vorrei scrivere un sacco di cose, ma appena ci provo mi si aggrovigliano i pensieri e mi blocco, io allora, a parte che ho letto che il dolore lacera gli occhi e invece secondo me il dolore te li cava, gli occhi, che come espressione penetra meglio, io a parte questo e al fatto che delle volte son strane, tipo che quando sento la parola diaspora mi vien sempre in mente la nespola, oppure son convinta di esser stata ad Avignone e di aver camminato lungo i portici con l’abito lungo, poi però siccome col lungo so mica camminarci un po’ di dubbi mi vengono sempre, io a parte tutte le altre stranezze varie ed eventuali, oggi io son dei giorni che penso che tutti dovremmo fare l’amore molto più spesso e in generale ogni volta che il resto diventa grigio e ci rimani male per tutto e per niente e ti deludono o ti sfracellano i maroni le persone più inaspettate tipo il postino, che a ragionare di meno e amare di più magari tutto il resto non si risolve, ma di sicuro le finte distanze si azzerano.

lunedì 6 aprile 2015

Charles Bukowski e le scarpe

cop
(Scrivo racconti, poesie e romanzi. Di solito infarcisco la mia roba con richiami di sesso tanto per tenerli svegli, e mentre sono svegli gli parlo anche del resto. Infilo tutto di soppiatto. Do loro la morfina e poi rianimo le loro esigue anime.)

Il mio problema è che mi innamoro di tutte le donne che scopo. Scopo bene, ma sono un tipo molto emozionale. Per me quando una donna mi dona il suo corpo, sento come se mi avesse donato la sua anima; questa è una delle cose che mi fa eccitare. E poi l’intero atto ha sfumature di morte e di assassinio e di conquista. Ma più che altro sento l’impulso della passione e dell’amore, e non posso vincerlo. Fremo da capo a piedi per la donna che ho appena scopato. Non ero così verboso, e mi è costato, ma non riesco a cambiare. La maggior parte della gente si scrolla di dosso una scopata come se stesse scrollandosi di dosso le briciole di un picnic. Non capisco quest’atteggiamento.

La radiosveglia ci ha svegliati, e Holly l’ha spenta. “Senti,” le ho detto, “prenditi un giorno libero. Dormiamo. Magari più tardi lo rifacciamo.” “No,” ha detto Holly, “ho finito i giorni di malattia, e oltre a questo, i bambini hanno bisogno di me.” Ho tirato su le coperte e mi sono coricato di nuovo.
Quando mi sono svegliato, Holly se ne era andata. Mi sono alzato e ho girato per l’appartamento. I doposbronza mi fanno sempre arrapare. Bere mi fa arrapare. Non bere mi fa arrapare. Ma i doposbronza mi fanno arrapare più di qualsiasi altra cosa. Ho trovato un paio di scarpe sue nel soggiorno, una di fianco all’altra vicino a una sedia. C’era una strana sensazione di solitudine e di calore – come per il pane abbrustolito imburrato o per la gente che viene gettata da una rupe. I tacchi e le suole delle scarpe erano di legno, e i tacchi (anche se tristemente larghi) erano alti. Le scarpe mi eccitavano. Io sono un tipo da gambe e scarpe. I seni per me vogliono dire poco, anche se li succhio perché alle donne piace. Ma gambe e scarpe mi fanno partire, e non tento di trattenermi. Avevo un’erezione, ho raccolto una scarpa e ho fatto scorrere dentro e fuori l’uccello. La base dell’uccello strusciava contro il legno, e la cappella era trattenuta da una stoffa soffice che chiudeva la punta della scarpa. Magari, ho pensato, un giorno o l’altro mi sposo una scarpa. “Vuoi tu, Henry, prendere questa scarpa come tua...” Facevo scorrere l’uccello dentro e fuori, poi ho trattenuto l’impulso. Dovevo preservare lo sperma. 

Sono tornato in camera da letto e ho guardato nell’armadio. Ho trovato un paio di mutandine blu – non c’erano macchie di merda – e le ho sfregate avanti e indietro sull’uccello. Era bello. Per un pelo non sono venuto. Certa gente, ho pensato, crede che io sia il poeta più grande degli Stati Uniti. Mettiamo che una di queste vaccate esca? Sarei condannato. Ho gettato le mutandine dentro l’armadio. Poi ho visto una scarpa. Solo una scarpa, scompagnata, con il tacco alto, a spillo. Quella sì che era una scarpa eccitante. L’ho raccolta e ho cominciato a scoparmela. Camminavo per la stanza e intanto ci davo dentro con la scarpa. Ho perfino dato dei rapidi affondi circolari, me la stavo scopazzando per bene quella scarpa. Poi, all’ultimo istante, mi sono staccato e l’ho gettata nell’armadio.
 
Charles Bukowski, Reading stupefacente in "Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze"    


venerdì 3 aprile 2015

la vita è un pasticcio della malora

La vita è un pasticcio della malora, dice Fitzgerald, io allora in questa pagina ci voglio mettere tutto dentro un po’ a caso, senza pensar più di tanto, senza rileggere, tutto un po’ così, niente portacipria che non lo uso, pietre, ci voglio mettere dentro delle pietre, e poi l’erba di prato e il profumo del bagnoschiuma all’argan, che quello alla camomilla è un po’ che non lo uso, invece la camomilla son ribelle e ieri l’ho piantata, e se nascerà mi ci farò le tisane che così finalmente dormirò molto e profondo e giallo come le città di notte, che blu è solo il cielo, la pietra no. Pagina o post? E cosa succederebbe a piantarsi noi? Di me nascerebbero gli occhi grandi o questi qui gonfi d’allergia? Sembrerei uno spaventapasseri o avrei i piedi all'insù? E perchè è così difficile ascoltare gli altri? Prendi come stai, che domanda del cazzo che è come stai, la più inutile di tutte, che ad ascoltare veramente con attenzione uno se la risparmierebbe la banalità del mio silenzio, e colmare un vuoto a caso personalmente ho smesso. Le parole possono graffiarti, accarezzarti, farti il solletico buffo, sanno farti piangere, ridere, possono regalarti musica solo tua o eccitarti da farci l’amore tutto d’un fiato, ma sanno anche mostrare la loro inconsistenza in un attimo, e quella secondo me è la volta peggiore di tutte, tipo una secchiata d’acqua ghiacciata in faccia mentre sogni, ma forse è il vento. Al limite, mi sono rotta i coglioni del limite e del bilico, ho voglia di vedere la puntata dopo per confrontarmi e capire se il verso è giusto, ma senza andar subito al finale, che quelli che leggono la fine dei libri prima del resto mi son sempre stati sui maroni, ho voglia di correre in avanti, ma per un sacco di cose è un periodo che vado indietro. C’ho dei problemi con le tempistiche mi sa, però a scrivere ste cose mi è venuto in mente che non solo non riesco a mollare un libro a metà, ma nemmeno buttarne via uno, però una volta con mangia prega ama, polpettone di una banalità che non so come cazzo ho fatto a finirlo lo stesso, con quello ho avuto proprio la rivolta dei polsi, allora l’ho imbustato, son andata in posta e piego di libro l’ho spedito al destinatario ignoto signor Luca Caghini, via del pacchero numero 12, 34567 Lapalude. 
Dopo mi son sentita incredibilmente meglio, giustifica, pubblica.

mercoledì 1 aprile 2015

Dalla se ne sbatteva tranquillamente i coglioni del protocollo musicale

“La gente lo definiva istrionico ma non era vero: Lucio viveva la musica con così tanta compenetrazione che assumeva atteggiamenti spettacolari, ma perché era totalmente dentro la sua parte musicale. E’ come quando vedi un grande jazzista: non fa scena, la scena viene fuori perché sta soffiando dentro il sassofono. E Lucio quando cantava era impressionante. Lui si approcciava al canto in modo mai protocollare, mai diligente, era un eversore: Dalla se ne sbatteva tranquillamente i coglioni del protocollo musicale, del rullante, e mi sconvolgeva perché gli veniva tutto bellissimo lo stesso. Capire questa cosa per un musicista è molto importante”

Francesco De Gregori in questa bella intervista qui: clic