Il mio ragazzo sta vivendo un’evoluzione al contrario. Non ne parlo con nessuno. Non so come sia successo, so solo che un giorno era il mio ragazzo e il giorno dopo era una specie di scimmione. Tempo un mese, e adesso è una tartaruga marina. Lo tengo sul bancone della cucina, in una pirofila piena di acqua salata. «Ben», dico alla sua testolina che sbuca dal guscio, «mi capisci?», e lui mi fissa con due occhi che sembrano minuscole gocce di catrame, e io verso lacrime nella pirofila, un mare di me.
Torna indietro di un milione di anni al giorno. Non sono una scienziata, ma a occhio e croce ho calcolato che il ritmo è questo. Sono andata dal mio vecchio professore di biologia dell’università e gli ho chiesto di buttarmi giù una cronologia approssimativa della nostra evoluzione. Sulle prime si è infastidito: voleva dei soldi. Gli ho detto che l’avrei pagato volentieri e si è rasserenato parecchio. La cronologia che mi ha scritto riesco a stento a leggerla – avrei dovuto chiedergli di batterla al computer – e ho scoperto che è sbagliata. Secondo lui il processo completo avrebbe richiesto grosso modo un anno, ma da come sta andando penso che ci resti meno di un mese.
All’inizio la gente telefonava chiedendo dov’era Ben. Perché non era al lavoro? Perché non si era presentato al pranzo con quei clienti? In libreria era arrivato quel volume fuori catalogo sulla storia della civiltà ordinato apposta per lui, poteva per cortesia passare a ritirarlo? Io rispondevo che era malato, di una malattia strana, e li pregavo di smettere di cercarlo. La cosa ancora più strana fu che smisero davvero. Smisero di chiamare. Nel giro di una settimana il telefono era muto e Ben, il babbuino, se ne stava accoccolato in un angolo accanto alla finestra, avvolto nelle tende, a bofonchiare fra sé e sé.
L’ultimo giorno che l’ho visto da umano, era triste per lo stato del mondo. Non era una cosa insolita. Lui era spesso triste per lo stato del mondo. Era uno dei motivi principali per cui lo amavo. Ce ne stavamo seduti vicini e ci intristivamo insieme, e pensavamo a quanto eravamo tristi, e a volte parlavamo della tristezza.
Il suo ultimo giorno da umano, mi ha detto: «Annie, ma non capisci? Stiamo diventando troppo intelligenti. Il cervello ci cresce sempre di più, e quando c’è troppo pensiero e troppo poco cuore il mondo si inaridisce e muore».
Mi ha rivolto uno sguardo eloquente con gli occhi azzurri imperturbabili. «Come me e te, Annie», ha detto. «Noi due pensiamo troppo».
Mi sono seduta. Ho ripensato alla prima volta che avevamo fatto sesso. Avevo lasciato le luci accese, tenuto gli occhi aperti e mi ero tutta concentrata sul lasciarmi andare; poi mi ero accorta che anche lui aveva gli occhi aperti e nel bel mezzo della cosa ci eravamo seduti per terra e avevamo intavolato una conversazione di un’ora sulla poesia. Era stato tutto molto strano. E tutto molto familiare.
Un’altra volta mi ha svegliato nel cuore della notte, mi ha tirato su dalle lenzuola celesti, mi ha portato fuori, sotto le stelle, e ha sussurrato: Guarda, Annie, guarda: non c’è spazio per nient’altro, solo per sognare. Io sono stata ad ascoltarlo, insonnolita, poi lemme lemme sono tornata a letto e mi sono ritrovata sveglissima, a fissare il soffitto, del tutto incapace di sognare. Ben si è riaddormentato subito, ma io di soppiatto sono uscita di nuovo. Ho cercato di fare un sogno che mi portasse fino alle stelle, ma non sapevo come. Ho cercato una stella su cui nessuno, in tutta la storia, avesse mai espresso un desiderio, e mi sono chiesta cosa sarebbe successo se l’avessi fatto io.
Il suo ultimo giorno da umano, si è preso la testa fra le mani e ha sospirato, e io mi sono alzata, gli ho baciato tutta la nuca, coprendo quella carne, esprimendo desideri lì sopra perché sapevo che nessun’altra donna era mai stata così metodica, nessuna gli aveva mai baciato ogni centimetro di pelle.
L’ho proprio rivestito di baci. Che desiderio ho espresso? Ho sperato che andasse tutto bene. Solo questo. Che andasse tutto bene. I miei desideri sono diventati generici già tanto tempo fa, quando ero piccola: ho capito presto a cosa si andava incontro se si desiderava qualcosa di specifico. L’ho abbracciato e ci ho fatto l’amore, con il mio uomo triste. «Visto, adesso non stiamo pensando», gli ho sussurrato all’orecchio mentre lui mi baciava il collo, «non stiamo pensando per niente», e lui mi ha premuto la testa contro la spalla e mi ha stretta più forte.
Alla fine, siamo tornati fuori: non c’era la luna, e la notte era buia. Mi ha detto che odiava parlare e che voleva soltanto guardarmi negli occhi e dirmi le cose stando così. Io l’ho lasciato fare e mi hanno messo brividi di emozione, le cose che aveva negli occhi. Poi mi ha detto che voleva dormire lì fuori, per qualche motivo, e la mattina dopo quando mi sono svegliata nel letto ho guardato fuori, sul patio, e ho visto uno scimmione stravaccato sul cemento che si copriva la testa con le grosse braccia pelose per ripararsi dal sole abbagliante. Ancora prima di vedere gli occhi ho capito che era lui. E una volta che ci siamo ritrovati faccia a faccia, lui mi ha guardato con la sua solita espressione triste e io ho abbracciato quelle spalle enormi. Non me ne importava neanche, in quel momento, sulle prime. Non mi è preso il panico e non ho chiamato il pronto intervento. Mi sono seduta con lui lì fuori e gli ho accarezzato il pelo sul dorso della mano. Quando ha fatto per toccarmi gli ho detto No, a voce alta, e lui apparentemente ha capito e si è tirato indietro. A tutto c’è un limite.
Siamo rimasti seduti sul prato a strappare i fili d’erba. Non ho sentito subito la mancanza del Ben umano: volevo conoscere anche lo scimmione, volevo prendermi cura del mio ragazzo come fosse un figlio, o un animale domestico; volevo conoscerlo in ogni modo possibile, ma non mi ero resa conto che non sarebbe più tornato. Adesso rientro dal lavoro e cerco la sua figura a dimensioni normali che gira angosciata per casa, e ogni volta mi rendo conto che non c’è più. Faccio avanti e indietro per i corridoi. Mastico interi pacchetti di chewing gum nel giro di pochi minuti. Ripasso i miei ricordi e mi assicuro che siano ancora intatti, perché se lui non c’è più, allora è compito mio ricordare. Penso a come mi abbracciava e mi stringeva tanto forte da mettermi a disagio, e alla sensazione del suo respiro sul mio orecchio: bella.
Quando entro in cucina, sbircio nella pirofila e vedo che adesso è diventato una specie di salamandra. È piccolo. «Ben», sussurro, «ti ricordi di me? Ti ricordi?» Lui alza gli occhi al cielo e io gli verso qualche goccia di miele nell’acqua. Una volta gli piaceva tanto, il miele. Lo lecca e poi nuota verso il lato opposto della pirofila. Eccolo il limite dei miei limiti: è qui. Non sai mai per certo dov’è, poi ci sbatti contro e bam, ci sei arrivata. Perché non posso sopportare di guardare nell’acqua e non riuscire più a trovarlo, di perlustrare le minuscole onde trasparenti con una lente da microscopio e individuare il mio ragazzo, il prodigio unicellulare, ingrandito e scontornato, decerebrato e innocuo, diretto, con le dimensioni e la trasparenza di una di quelle macchioline oculari, verso il nulla.
Prendo la macchina, lo poso sul sedile destro e lo porto in spiaggia. Mentre cammino sulla sabbia saluto con la testa la gente sugli asciugamani, col corpo steso al sole e piena di speranza. Sul bagnasciuga mi accovaccio e appoggio la pirofila sulla punta di una piccola onda. Galleggia bene, è una barchetta da cucina, che qualcuno dovrebbe trovare arenata sulla spiaggia e usare per fare i biscotti, bottino ideale per un poveraccio con gli ingredienti tutti sottomano, ma senza recipiente.
Ben la salamandra nuota fuori dalla pirofila. Io agito le braccia verso l’acqua, con un gesto abbastanza ampio perché mi veda bene, in caso si volti a guardare. Mi giro e torno alla macchina.
A volte penso che prima o poi le onde lo riporteranno a riva. Un uomo nudo con lo sguardo stralunato. Che ha viaggiato nella storia ed è tornato indietro. Tengo d’occhio il giornale. Controllo che il mio numero sia sull’elenco. La sera passeggio qui intorno, in caso non si ricordi di preciso dov’è che abitiamo. Esco a dare da mangiare agli uccellini e a volte, prima di mettermi a letto sola come sono, mi tocco il cranio di qua e di là per vedere se si sta ingrandendo e mi chiedo, se così fosse, che cosa di utile potrebbe riempirlo.
Aimee Bender, La donna che ricordava in “La ragazza con la gonna in fiamme”
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