Il primo libro che ho letto, il primo libro da grandi, è un libro che io fino a pochi anni fa pensavo che l’avesse scritto un uomo, invece l’aveva scritto una donna, Harper Lee, e il libro si intitola Il buio oltre la siepe, e io non mi ricordo quanti anni avevo, di preciso, mi ricordo che ero seduto davanti a casa di mia nonna su una sedia arancione, mi ricordo il cantar di mia nonna dalla cucina, mi ricordo mio babbo che passava con dei secchi di calce, mi ricordo la luce che c’era nel cielo e mi ricordo l’incanto di un libro senza figure dove dentro c’erano tante di quelle figure che a disegnarle tutte ci volevan degli anni.
E la sorpresa del fatto che io, a sprofondarmi nel libro, non ero fuori dal mondo, ero dentro, nel mondo.
Questa cosa a me poi è successa con tutti i libri che mi son poi piaciuti: mi ricordo, preciso, il silenzio che c’era alla biblioteca Guanda di Parma quando ho letto la prima poesia di Chlebnikov che ho letto nella mia vita: «Quando stanno morendo, i cavalli respirano, / Quando stanno morendo, le erbe si seccano, / Quando stanno morendo, i soli si bruciano, / Quando stanno morendo, gli uomini cantano delle canzoni».
E mi ricordo la mia cameretta di Mosca, in ulica Trofimoviča, dietro al Cremlino, e il fresco del piumino d’oca che mi copriva quando ho letto questa frase di Mosca - Petuški, di Venedikt Erofeev: «E così per tutta la vita. Per tutta la vita incombe su di me questo incubo, un incubo che si traduce nel fatto che ti capiscono non al contrario, no, al contrario sarebbe ancora niente, ma proprio perfettamente a rovescio, vale a dire, del tutto suinamente, vale a dire, antinomicamente».
E mi ricordo la metropolitanta di Mosca, due anni prima, e un nero di ombrelli e il duro del sedile su cui ero seduto mentre leggevo il primo libro in russo che leggevo nella mia vita, coi caratteri cirillici e tutto, Romanzo teatrale, di Michail Bulgakov, e mi ricordo il momento in cui ho alzato la testa quando mi sono accorto che era un romanzo incompiuto, e mi sembrava che tutta la carrozza mi
guardasse come si guarda un coglione.
E mi ricordo dello scorso inverno, a Bologna, e le mollette che ballavan sui fili per stendere i panni appena dopo che avevo letto questa frase di Noi, di Evgenij Zamjatin: «Ad ogni equazione, ad ogni formula del nostro mondo superficiale corrisponde una curva o un solido. Per le formule irrazionali, la mia √-1, non conosciamo solidi corrispondenti, non li abbiamo mai visti. Ma la cosa terribile, è che questi solidi sicuramente esistono ma sono invisibili; perché in matematica, ci passano davanti come su uno schermo le loro ombre strane, irritanti – le formule irrazionali; e la matematica e la morte non sbagliano mai. Se questi solidi non li vediamo nel nostro mondo, in superficie, per loro ci sarà – e deve esserci per forza – un intero enorme mondo, oltre la superficie».
E mi ricordo, come se avesse una faccia, il treno interregionale sul quale ho letto la prima opera di Learco Pignagnoli che ho letto nella mia vita, stampata su una rivista che si chiamava Il semplice, e l’opera era questa qua: «Opera numero 1.
Conoscevo uno che sbagliava sempre le parole. Una volta voleva dire polipo, ha
detto flauto».
Paolo Nori
(ai lettori della Biblioteca Civica di Parma, l’autore consiglia alcune delle opere che hanno segnato la sua formazione)
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