“Fu un album dei Radiohead a far scattare qualcosa. Si intitolava Amnesiac. Il titolo si confaceva al mio destino, visto lo stato di amnesia sensoriale. Lo acquistai. Lo ascoltai e non provai nulla. Era l’effetto che ormai aveva su di me ogni genere di musica. Stavo quasi per alzare le spalle all’idea di essermi procurato altri sessanta minuti di niente quando cominciò la terza canzone, il cui titolo alludeva a una porta girevole. Una sequenza di suoni sconosciuti, distribuiti con parsimonia sospetta. Il motivo aveva un nome azzeccato, che ricostruiva l’attrazione assurda per le porte girevoli che hanno i bambini piccoli, incapaci, se vi si avventurano, di uscire dal loro cerchio. In teoria, non c’era nulla di commovente, ma mi stupii quando mi accorsi di avere una lacrima all’angolo dell’occhio.
Dipendeva dal fatto che non provavo niente da settimane? La reazione mi parve eccessiva. Il resto dell'album non suscitò in me altro che il vago stupore provocato da qualsiasi primo ascolto. Finito l’album, riprogrammai la traccia numero tre: cominciai a tremare in tutte le membra. Il mio corpo, folle di riconoscenza, si protendeva verso quella musica scarna, come se si trattasse di un’Opera italiana, tanto era profonda la sua gratitudine di uscire finalmente dal congelatore. Bloccai il tasto repeat affinché la magia continuasse a prodursi ad libitum.
Prigioniero appena liberato, mi abbandonai al godimento. Ero il bambino vittima della sua fascinazione per la porta girevole, ruotavo come una trottola in quel percorso circolare. Sembra che i decadenti cerchino la sregolatezza di tutti i sensi: quanto a me, ne avevo uno solo funzionante ma, attraverso quella breccia, mi inebriavo fino alle profondità più abissali della mia anima. Non si è mai così felici come quando si è scoperto il modo di perdersi.”
Amélie Nothomb, Diario di rondine, Voland
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